Frenesia.

Doveva essere di marzo, o di ottobre. Di maggio, o di novembre.
La frenesia delle mezze stagioni. Canzoni grigie nell’aria, uscivano dalla punta infiammata di sigarette riflesse sul mare, sulle onde morbose affamate di riva.

C’è sempre un lungo periodo di assenza di parole. C’è sempre il brusio di chi blatera a mezzogiorno, le ginocchia solleticate dall’estremo della tovaglia a quadretti del bar. Tutte queste facce, coperte di nero. Coperte dall’ombra di catene che attraversano l’aria, si allungano fin sotto al tavolo e da sotto al tavolo si affannano a circondare le caviglie di tutti gli altri, a muover loro le braccia e il bicchiere.

Sono tutti così felici, in questa piazza. Lo hai mai notato? Lo hai notato, vero? Dietro alla buona maniera di un sorriso, dietro al proprio bicchiere di vino. Ma sono appena le undici e nell’atmosfera c’è ancora l’ultimo rivolo di freschezza mattutina. Soffia sulla pelle. Un brivido appena. Una scossa che scava fino in fondo alle ossa.

La frenesia della primavera che arriva a passi lunghi e frettolosi, che vuole sbrigarsi, incipriarci di polline per lasciare spazio all’estate della carne. Da dove viene questo lunghissimo rivolo di fumo? Da dove mi chiama questo incessante cantare? Canzoni grigie sotto i portici e sulle banchine.

Doveva essere a maggio, o forse aprile. Forse ottobre, magari settembre. Doveva essere la frenesia delle mezze stagioni. La lenta elegia scritta d’autunno con l’inchiostro di fango delle foglie morenti. L’orchestrazione dei passi sul sottobosco, sul marciapiedi. Le carrozze e le caldarroste. Le croccanti cartine di caramelle. I fiori finti e le fanfare. La vita piena degli anni pieni di vita.

La primavera della mia vita. Doveva essere quella. Dev’essere da lì che soffia il ricordo, come vento passeggero di una mezza stagione infinita, immaginata, ora troppo lontana nel tempo per dire “vissuta”. Dev’essere per questo che ancora, di tanto in tanto, mi tormenta.

Era la primavera della mia vita, gettata su una piazza, o in un pugno di ciliegie ancora acerbe e già guastate. Eppure buone e rotonde, com’è buono e rotondo il cuore, nel maggio dell’esistenza.

Van Gogh, Ramo di Mandorlo, 1890

Crisalide

Spesso mi interrogo su cos’avrebbe da dire Freud. No, non riguardo alla scarsa scrittura della serie televisiva su di lui appena rilasciata da Netflix, ma a proposito di me e di te. Mi chiedo in che modo ci guarderebbe e come valuterebbe il mio ricorrente bisogno di sparire dentro di te. Non ho mai provato prima d’ora questa sensazione, è nuova, perturbante e porta con sé una sfumatura vagamente materna – il che fa sorridere, se penso che il “vecchio” fra i due sono io, quel signore di cent’anni almeno con un posto dentro al cuore dove tira sempre il vento, eccetera eccetera. Mi chiedo senza dubbio come il padre della psicanalisi interpreterebbe te, me, noi, mio padre, mia madre, la mia famiglia reale, quella immaginaria e tutte quelle che ho ricostruito fuori di me, nel corso degli anni, e che puntualmente finiscono per fare la stessa fine della prima (con tanto di senso di colpa incorporato). Mi chiedo cos’avrebbe da dire, quel signore con la barba lunga e lo sguardo da maniaco sessuale, sui miei goffi tentativi di costruire nuove famiglie fuori dalla mia, sul circolo vizioso messo in moto da questo istinto di sentirsi sempre figlio, protetto, da qualche parte, sotto qualche tetto, dentro qualche luce accesa. Ricostituzione del nido perduto? O suona troppo pascoliano? E di me e di te, cosa direbbe? Tu che mi proteggi più di quanto faccia io, nonostante l’inesperienza e la grazia ingenua dell’età. E questa voglia, che mi prende certi giorni, i giorni in cui tiro fuori dall’armadio la felpa più morbida che ho e me la metto addosso, così da aver uno strumento con cui coprirmi il volto, tenere al caldo il cranio, sentirmi avvolto, come sparito. Come facevo da bambino, a volte, sotto le coperte. Mi avvolgevo come un bruco nel piumone, lo stringevo tutto intorno fino a diventare una crisalide, e aspettavo. Che cosa, non si sa. E chi l’ha mai capito? Aspettavo che rientrasse dalla porta chi se n’era andato? Aspettavo che chi c’era si accorgesse che mancavo e che soffrivo? Forse aspettavo solo di sparire. Così, come certi giorni vorrei fare con te. Averti davanti e sparire nel tuo abbraccio. No, non è colpa di Calcutta, lo vorrei lo stesso. Averti qui davanti, vedere che mi stringi e diventare un tutt’uno col tuo petto, col tuo stomaco. Immaginare il buio del tuo ventre e rimanere chiuso lì, in silenzio, ad aspettare ancora un po’, al sicuro, che la vita la finisca di avere così tanta fretta.

P.S. Che poi, che cazzo ne sa Freud?

La mia foto sul tuo comodino

E così ho scoperto che in realtà sapevi amare. Hai amato le donne che ti sono state accanto, hai amato la bambina riccioluta che ti fu affidata dalle coincidenze. Hai amato i tuoi genitori e i tuoi fratelli, ma soprattutto i tuoi cani e i tuoi fucili. Hai amato, lo so, la polvere da sparo, le tue passeggiate lungo gli argini della nostra terra. Hai amato molto la montagna e poco il mare. Il cibo e i tuoi programmi di cucina. Hai speso denaro persino per i tuoi nipoti. Hai amato la tua Audi bianca arrugginita, dolorante sotto il peso di una carrozzeria datata che la faceva borbottare sempre, come una vecchia signora con l’artrite, soprattutto se pioveva. Forse hai anche amato farmi quella foto che tenevi sul tuo comodino. Avevo i capelli tutti da una parte, laccati come se ci avessero versato sopra della colla. Avevo una camicetta bianca, o forse rosa, dei calzoncini scuri, dei calzini bianchi e delle scarpette da ginnastica firmate, come piacevano a mia madre. Avevo uno sguardo molto serio, come spesso mi capitava da bambino. Talmente distese erano le mie solitudini, da sembrare eterne. Tutto il mondo faceva più volte il giro su se stesso dentro la mia testa. Più vite mi abitavano nello stesso giorno e con tristezza rimpiangevo l’incapacità di proiettare davanti ai miei occhi tristi gli amici immaginari che attraversavano i miei sogni. Forse eri felice, quel giorno, di fianco al grande abete sempreverde, calpestando gli aghi sul terreno umido, scattando, girando la rotella del rullino della tua vecchia camera analogica. Forse mi hai amato e hai amato anche il mio muso ed il mio sguardo scuro. Forse, per un attimo, mi hai amato come hai amato tutto il resto: le tue donne, i tuoi fucili, le tue borse da calcetto, i tuoi duecento cani. Alla fine, ti ho scoperto. Ho scoperto che sai amare e sai essere fedele. Sai persino giocare, certe volte. Quello sì, l’avrei voluto fare. Giocare con mio padre, saltargli sulle spalle, invece di vederlo da lontano, scattarmi una foto da tenere sul suo comodino. Una foto, muta, da guardare ogni mattina al posto del mio cuore.

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Ventinove Settembre

Esja, l’unico interlocutore sulla baia. Interlocutrice, semmai, dal momento che la montagna è femminile, spesso seguita anche dall’articolo. L’Esja. Manco fosse una persona. Manco mi sentisse davvero. Esja se ne sta laggiù, dall’altra parte del fumo, oscurata tanto spesso dalla grigia foschia della pioggia intensa, tanto fine e tanto fitta che neanche in Inghilterra. Neanche a Londra.

Mi ricordo come stavo un anno fa: camminavo nei pressi della London Tower in piena notte, dopo una serata a bere vino scadente nel pub più antico della città – qualcosa come milleseicento e qualcosa – riflettevo e piangevo. C’erano nuvole sparse, talmente infettate dall’inquinamento luminoso della vecchia capitale da sembrare gialle. Fra due nuvole vedo sfrecciare un aereo, per quanto sfrecciare possa essere il termine adatto, dal momento che dal basso sembrano tutti cadere al rallentatore. Ho pensato a quell’aereo, l’ho riscritto dandogli un significato nuovo, come se fosse una mia lacrima. Come se invece di cadere nel vuoto, scendesse raso la mia pelle verso la piega della bocca impassibile. Non che ci fosse nessuno, a quell’ora, dalle parti della Tower, ma tant’è. Ho sempre avuto pudore per i miei sentimenti, pur essendo, senza vergogna, un gran sentimentale. Ho sempre avuto pudore per l’espressione dei miei sentimenti. Scrivo su un blog, ma cerco regolarmente nuove tecniche per nasconderlo – dalle ricerche, dalle directory, da te, da me -, non sopporto che mi si veda piangere, o che mi si pensi fragile. Ci sarebbe tutto un capitolo da aprire, ma non lo farò. Ciò che voglio dire è che un anno fa piangevo. E oggi, invece, sono felice. Almeno credo. Dovrei essere felice, perlomeno. Dicono che se ti viene il dubbio hai già un problema. Ma a chi, dio santo, non verrebbe di questi tempi, il lecito, fugace dubbio di non essere felice? Me lo si conceda, se non altro, per quello che vedo.

Anche questa città si è ormai svuotata di attese e aspettative. Pensavo che l’Italia potesse cullarmi nel suo grembo materno, ma mi ha strapazzato e ferito come un conducente ubriaco. Se non fosse stato per quei fiori di lavanda dentro le tue mani, chissà in quale calanco mi sarei trovato ad annaspare. Non fosse stato per i tuoi abbracci infiniti e il tuo amore inesperto, ancora senza nome. Per il tuo corpo intero che, per qualche strana eccezione alle leggi naturali, certe sere, riesce perfettamente a contenere il mio, che si fa piccolo piccolo. Non fosse stato per il tuo amore incomprensibile, anche il grembo materno sarebbe diventato una botte scomoda e stretta da raschiare.

E ora, e ora dove andare? Reykjavík è una carcassa vuota, dopo che il tempo, la distanza e la depressione hanno portato via le speranze di rinnovamento che mi allacciavano le scarpe ogni mattina, tempo fa. Rimangono reflussi di entusiasmo, tracce sparse di radici piantate e già recise. Reykjavík, dove sei? Dove sono finiti i giorni pieni e le risate? Samtún e la luce di quella cucina sempre accesa. Il gatto invadente e la coperta grigia. Il profumo che le donne lasciavano nel bagno la mattina. I giochi e le magie. Dove sei finita? Patria di filologico entusiasmo, orizzonte immaginario di un futuro in avvicinamento. Dove sei?

Dov’è invece la mia patria, piegata sotto il peso dell’ostilità. Avvelenata dall’eterna, disinteressata ignoranza che le scorre nelle vene, che dilaga come un cancro nelle viscere furiose di chi cerca nemici da annientare. Dove sei, tempo? Questi vent’anni ormai consumati, e i bilanci iniziati ma non ancora finiti. Mi giro di spalle e ho ventisei anni. Sono felice, pronto a partire. Le valigie pronte, cariche di vestiti e di fantasmi, ma pur sempre cariche. Mi volto in avanti e sono ventinove, invece. Quasi trenta. Trent’anni che sono al mondo. Senza aver tenuto niente. Senza saper nemmeno dire se sono felice. Senza nemmeno sapere dove posso stare. Da solo col cappotto ben stretto, cammino vicino al mare come ho fatto tante volte, tutte le volte che l’ho dovuto fare. Cerco nella nebbia umida la sua faccia immobile. Ma invece di Esja mi rispondono solo le sirene. Dal porto solo luci verdi e sirene. Sollevano richiami nella notte, che cadono sul fondo della baia. Inascoltati.

Tot a ca’

Una rondine dopo l’altra, e dopo le rondini solo l’odore dell’erba illuminata dalla sera. L’argine del fiume che imponeva la sua ombra sulle nostre testoline ben rasate, ma sudate a dovere, piene solo del rumore di calci sul pallone e sfide a nascondino. Solo le rondini basse, che ci sfioravano i ciuffi di capelli misti a ciuffi d’erba, misti a tracce di terriccio figlie di giocose colluttazioni. Chiedevo a mia zia perché le rondini volassero così basse, lei, nel suo grembiule celeste attraversato da strisce verticali e bianche – o almeno dovevano essere state molto bianche, una volta, prima di ricoprirsi di tracce di pomodoro e condimenti vari – lei mi rispondeva: “Sta per piovere!”. “E che ne sai?”, le rispondevo – il rumore della gomma consumata del fondo delle mie scarpe che le correva incontro e strideva in frenata sull’asfalto bollente. Che ne sai? “Le rondini volano sempre così basse quando sentono il temporale. Venite in casa!”, diceva, “Tot a ca’!”. Ma noi restavamo in piedi, mentre lei rientrava a mescolare il sugo col suo lungo cucchiaio di legno antico, in quel cunicolo di cucina. Noi restavamo in piedi, fermi immobili a fissare il cielo. Le rondini stridevano quasi più delle mie scarpe da ginnastica. Traiettorie agitate e confuse. E in cima all’argine del fiume, che già ogni sera si stendeva cupo su di noi per ricordarci che un’altra giornata doveva finire, là in cima iniziavano a vedersi nuvole nerissime. Avanzavano veloci e dalla nostra altezza di bambini molto piccoli, sembravano ingoiare l’argine, e prima ancora i binari del treno, con vorace impazienza. Come una coperta spessa e scura che si mangiava tutto: il sole, le stelle, i fili d’erba, il canale e forse, presto, anche le rondini e noi due. Persino i grilli quella sera avevano deciso di non cantare, forse balzati più in là, sotto una foglia, al riparo dalla famelica tempesta. Zitti. Tutti a casa, ritirata! Qualcosa nel cuore, già allora, mi si lacerava. Dovevo interrogarmi sulla fine del mondo, mentre il vento si alzava tanto da spingermi via e da entrarmi nella maglietta di cotone leggera, con le sue mani invadenti e maleducate. Dovevo fermarmi lì, capite? Resistere, piantare i piedi, aspettare l’oscurità e chiederle: “Perché?”.

Di specchi, di luci e di spiriti

Ma se anche riportassimo ogni cosa al suo posto, questo presente non ci potrebbe assomigliare. Se riavessi lo stesso fuoco dello stesso camino, lo stesso vaso di vetro in cui nonna gettava i rotocalchi, i giornaletti di cronaca rosa e i suoi Liala. Se anche riavessi lo stesso odore di lasagne nel forno, lo stesso terrazzo, l’intonaco scheggiato sul muro e, in sottofondo, i concerti di musica classica su Rai1, quando di canali ce n’erano ancora mano di dieci. Se avessimo quei mobili disposti nella stessa maniera, il tuo barboncino bianco che mi lecca il lobo di un orecchio, il sellino della stessa bicicletta, l’erba verde e le tartarughe sul retro, nel recinto di fronte al garage dipinto di fresco. Se tornasse tutto uguale, se anche tu non fossi morta, nonna, ma vivessi ancora. Questo presente non ci potrebbe assomigliare comunque. Tanto è cambiato il vento, tanto diverso è il mondo e tanto diversi saremmo noi, se ancora, entrambi vivi, ci rivolgessimo l’uno all’altro le stesse parole, ma con la voce e la faccia di adesso. Trent’anni, quasi, a camminare su questo mondo, e cos’ho guadagnato? Saggezza? Poca. Forse stanze, stanze lunghe e infinite, stanze verticali. Ricoperte di specchi, di luci e di spiriti.