Doveva essere di marzo, o di ottobre. Di maggio, o di novembre.
La frenesia delle mezze stagioni. Canzoni grigie nell’aria, uscivano dalla punta infiammata di sigarette riflesse sul mare, sulle onde morbose affamate di riva.
C’è sempre un lungo periodo di assenza di parole. C’è sempre il brusio di chi blatera a mezzogiorno, le ginocchia solleticate dall’estremo della tovaglia a quadretti del bar. Tutte queste facce, coperte di nero. Coperte dall’ombra di catene che attraversano l’aria, si allungano fin sotto al tavolo e da sotto al tavolo si affannano a circondare le caviglie di tutti gli altri, a muover loro le braccia e il bicchiere.
Sono tutti così felici, in questa piazza. Lo hai mai notato? Lo hai notato, vero? Dietro alla buona maniera di un sorriso, dietro al proprio bicchiere di vino. Ma sono appena le undici e nell’atmosfera c’è ancora l’ultimo rivolo di freschezza mattutina. Soffia sulla pelle. Un brivido appena. Una scossa che scava fino in fondo alle ossa.
La frenesia della primavera che arriva a passi lunghi e frettolosi, che vuole sbrigarsi, incipriarci di polline per lasciare spazio all’estate della carne. Da dove viene questo lunghissimo rivolo di fumo? Da dove mi chiama questo incessante cantare? Canzoni grigie sotto i portici e sulle banchine.
Doveva essere a maggio, o forse aprile. Forse ottobre, magari settembre. Doveva essere la frenesia delle mezze stagioni. La lenta elegia scritta d’autunno con l’inchiostro di fango delle foglie morenti. L’orchestrazione dei passi sul sottobosco, sul marciapiedi. Le carrozze e le caldarroste. Le croccanti cartine di caramelle. I fiori finti e le fanfare. La vita piena degli anni pieni di vita.
La primavera della mia vita. Doveva essere quella. Dev’essere da lì che soffia il ricordo, come vento passeggero di una mezza stagione infinita, immaginata, ora troppo lontana nel tempo per dire “vissuta”. Dev’essere per questo che ancora, di tanto in tanto, mi tormenta.
Era la primavera della mia vita, gettata su una piazza, o in un pugno di ciliegie ancora acerbe e già guastate. Eppure buone e rotonde, com’è buono e rotondo il cuore, nel maggio dell’esistenza.